di: Carmelita Cianci

Cantina Frentana, passato e futuro della cooperazione del vino in Abruzzo

Intervista al direttore Felice Di Biase.

Cantina Frentana, siamo a Rocca San Giovanni nel centro nevralgico della Costa dei Trabocchi, è una delle realtà cooperative più antiche in Abruzzo. Abbiamo incontrato il direttore della cantina, Felice Di Biase, che ci ha raccontato la storia e le prospettive future della cooperazione del vino abruzzese.

Cantina Frentana, passato e futuro della cooperazione del vino abruzzese. Intervista al direttore Felice Di Biase.

Felice Di Biase
Cantina Frentana
Cantina Frentana
Cantina Frentana
Cantina Frentana
Cantina Frentana

Qual è la storia di Cantina Frentana?
È una delle cantine sociali più antiche in Abruzzo. Nasce nel secondo dopoguerra, quando c’era voglia di riscatto, fame di rivincita, ed era più facile far diventare un sogno realtà. In questo territorio, qui a Rocca San Giovanni, come in tanti della provincia di Chieti, si sviluppa dall’inizio degli anni 50 quel fenomeno che poi ha caratterizzato tutto il secolo scorso: la cooperazione. Le persone capirono che insieme si poteva fare meglio che da soli. Fu un medico, un luminare, nonché ai tempi il sindaco del paese, Francesco D’Agostino, fondatore e primo presidente della Cantina Frentana, a comprendere che lo sviluppo, la salvaguardia e la tutela di un territorio passavano anche attraverso questi strumenti ovvero la cooperazione. Chiamò la cantina “Frentana” perché nella sua prospettiva doveva essere un punto di riferimento per tutto il territorio, un’area vasta che andava oltre Rocca San Giovanni e i comuni limitrofi.

Lei è il direttore della Cantina. Qual è il suo percorso e come è iniziato?
Io sono figlio di agricoltori, attualmente ho un’azienda agricola e sono socio della Cantina Frentana. Ho studiato economia e lavorato come commercialista, però poi mi sono appassionato al mondo del vino, un ambito che mi realizza rispetto a quello che facevo prima, era inevitabile, quindi ho lasciato tutto e mi sono dedicato all’azienda di famiglia. Questo lavoro mi realizza perché mi occupo del bene comune: se ognuno di noi facesse quel poco per occuparsi del bene di tutti, che è cominciare a raccogliere una carta per strada o non buttarla, se ognuno di noi potesse fare qualcosa per occuparsi del bene collettivo, staremmo tutti meglio: allora comincio io!

Che cos’è per Lei la cooperazione?
Cooperazione è: da soli non ci si salva. E’ un modo di fare imprenditoria, quindi esercitare impresa insieme, questo per me è la cooperazione che è alla radice di quello che è stato lo sviluppo del movimento cooperativo a partire dal 1800 e poi nel 1900.
Da noi il movimento cooperativo, inteso in senso specifico in agricoltura, nasce negli anni 50, e la Cantina Frentana fu tra le prime a costituirsi come cooperativa in quest’area e in Abruzzo.


Quanti erano i soci all’inizio?
Inizialmente, nel 1958, si partì con un piccolo gruppo di 30 soci fondatori, ma già l’anno successivo se ne contavano 100. Qui intorno, all’epoca, c’erano pochi vigneti e avere 100 soci dopo un anno dalla fondazione rappresentava un importante risultato: testimoniava che questa progettualità era vincente, quindi le persone ci credevano. La cantina si sviluppò diventando in pochi anni una realtà cooperativa di riferimento, e dopo la Frentana, ne arrivarono altre. Può considerarsi precorritrice in quest’ambito, tanto che ancora oggi, nella provincia di Chieti si contano trenta cantine sociali operative. In Abruzzo la nostra provincia è l’emblema della cooperazione, anche a livello nazionale ha una delle più alte concentrazioni sul territorio, inoltre è tra le prime province produttrici di uva da vino in volume.

La cantina fisicamente è sempre stata qui?
E’ sempre stata qui, questo è lo stabilimento originario, ma la caratteristica più importante è rappresentata dalla torre vinaria che nasce con la cantina, diventando negli anni il simbolo del nostro territorio.
Di torri vinarie, con questo brevetto, in giro per il mondo ne sono state costruite diverse: la torre vinaria è frutto dell’ingegno di un altro luminare di quegli anni del dopoguerra che fu Emilio Sernagiotto, enotecnico e figura di spicco nel mondo enologico italiano.
Progettò questa torre che venne costruita non solo qui, ma in replica in tante parti d’Italia e del mondo. Per l’epoca il progetto era rivoluzionario, anche come sistema di vinificazione, e ancora oggi conserva il suo fascino e la sua utilità. Prima veniva adibita alla vinificazione vera e propria, mentre oggi è impiegata solo per lo stoccaggio del vino.

Nello specifico come funzionava in passato e come funziona oggi la Torre Vinaria?
In sostanza accadeva questo: le uve erano diraspate e pigiate nel piano terra, quindi il mosto veniva spinto con delle elettropompe negli ultimi piani della torre e poi per caduta, i vini, dopo la fermentazione, venivano travasati nei piani successivi fino a che nell’ultimo passaggio, ovvero al primo piano, il vino era già filtrato, decantato e pronto per la vendita. Tutti i vini che erano ospitati nella torre vinaria avevano le temperature di fermentazione controllate, c’erano dei meccanismi tecnologicamente molto avanzati e innovativi per l’epoca. Invece attualmente la torre vinaria viene adibita solo allo stoccaggio dei vini, ci sono 5 piani, e sono 16 le vasche in cemento vetrificato presenti per ogni piano, fatta eccezione per il quinto che è adibito alla sala degustazione e all’accoglienza. Le vasche hanno una capienza tra i 200 e i 300 quintali.

In cantina lavorate solo con i lieviti industriali oppure utilizzate anche gli “indigeni”?
Il vino è un prodotto naturale e cerchiamo di rispettare nel migliore dei modi possibile il percorso naturale che il vino deve e può fare, questo lo facciamo anche attraverso l’utilizzo di lieviti indigeni, cercando di evitare manipolazioni che potrebbero “abbellire” il gusto, il profumo, il colore, ma che spesso non sono al 100% naturali. Cerchiamo di dare al nostro vino la giusta collocazione che merita, cioè l’autenticità. La nostra politica è quella di mettere sul mercato un prodotto, il vino, che rispetti l’originalità e l’origine del territorio con tutte le sue caratteristiche e peculiarità, un prodotto che sia unico, di qualità e non replicabile altrove: questa deve essere la salvezza di un vino, di un territorio.

Quindi anche le cantine sociali oggi fanno il vino di qualità? In particolare penso a quello delle cantine sociali di 15-20 anni fa, un’altra storia, un altro vino.
Le cantine sociali 50 anni fa nascevano per vinificare le uve dei propri soci che spesso  gli stessi non riuscivano a vendere nel libero mercato o che meglio il libero mercato retribuiva loro a prezzi nettamente inferiori. Quindi le cantine nascevano per raccogliere le uve dei soci, lavorarle e ricollocarle sul mercato. All’epoca non esistevano management, controllo qualità, direzione aziendale, anche l’aspetto tecnologico non riusciva a dare al prodotto finito la qualità attuale. Oggigiorno tutte le cantine hanno subito una trasformazione radicale, perché hanno capito che bisogna fare impresa, qualità, poi c’è l’immagine, la comunicazione, la necessità di essere concorrenziali, perché se non fai impresa e qualità sei fuori dal mercato. O ti adegui, oppure sei finito, è un percorso obbligato.

Quanti sono i soci attualmente? Lavorano anche in biologico? E dove sono dislocati i terreni?
Attualmente i soci sono 500, un 20% pratica l’agricoltura biologica. I terreni vanno dal mare Adriatico alla collina dell’entroterra lancianese, da 0 a 350 metri di altitudine,  un’area che abbraccia dieci comuni. Gli ettari complessivi sono 1200 e annualmente produciamo 1.100.000 bottiglie, l’obiettivo però non è il volume ma il valore, la qualità. Fino a 15 anni fa, vino di cooperazione voleva dire vino di non eccelsa qualità e soprattutto vino a un prezzo “cheap”. Il nostro modello è sempre stato quello di cooperazione altoatesina, non è facile da replicare, ma almeno cerchiamo di capirlo, ispirarci, provarci. Il modello altoatesino deve essere il nostro obiettivo, bisogna tendere a quel tipo di impresa, a quel tipo di filosofia, fare un vino di alta qualità, facendo capire al mercato che si può e si deve produrre vino buono sempre, che la cooperazione ha una marcia in più.

Qual è questa marcia in più?
È la marcia di un territorio molto più ampio, di selezione di vini e terroir completamente diversi, di prodotti e di offerte, che si possono fare sul mercato, molto più ampie, legate a un concetto che è sostenibilità. Nel momento in cui tu consumatore vai a comprare quella bottiglia di vino che è sullo scaffale di un’enoteca, di un supermercato o sulla tavola di un ristorante, nel momento in cui tu paghi quel vino, tu consumatore devi sapere che quel prezzo che stai pagando lo stai distribuendo a un intero territorio, non solo a un imprenditore.

I vitigni di riferimento sono gli autoctoni locali immagino, in particolare la Cococciola.
Noi siamo i più grandi produttori di Cococciola al mondo. A livello mondiale se ne producono circa 45.000/50.000 ettolitri, la metà proviene dalla nostra cantina.
Quello che vinifichiamo di più è il Montepulciano, tra gli altri vitigni il Pecorino, il Trebbiano Toscano e la Passerina. Negli ultimi anni abbiamo puntato molto sugli autoctoni, soprattutto sui bianchi come il Pecorino. Il sistema di allevamento per l’80/90% è rappresentato dalla classica pergola abruzzese, per il resto è guyot.


Avete anche il Trebbiano abruzzese?
Si, abbiamo anche un po’ di Trebbiano abruzzese, vitigno che negli anni passati è stato bistrattato. È storicamente molto produttivo, e spesso in passato era sinonimo di sola quantità, ma posso garantire che ai giusti volumi, con rese più limitate, si può produrre dell’ottimo Trebbiano abruzzese in purezza.

Spumantizzate?
Spumantizziamo poco, facciamo piccoli volumi con il Metodo Martinotti, in quanto siamo accessoriati con un’autoclave. Direttamente qui in cantina produciamo e imbottigliamo il rosé e la Passerina, mentre il Pecorino e la Cococciola sono spumantizzati altrove, ma l’obiettivo è quello di fare, direttamente, tutto qui in cantina.

In quali mercati siete presenti?
Siamo presenti in 30 paesi, dal Giappone, passando per Cina, Europa, Usa e Canada. Il 55% del mercato è italiano, il 45% estero. In Italia siamo anche nella Gdo, invece nel mondo curiamo soprattutto il canale Horeca: cerchiamo di rappresentare l’Abruzzo in posti e luoghi dove possiamo portare il nostro territorio. Per noi l’obiettivo principale è vendere il territorio, è questo che conta. Poi se vendiamo il territorio, vendiamo anche il vino. Con questa filosofia siamo riusciti ad entrare su Costa Crociere, ma anche nei resort più belli e importanti delle Maldive e della Repubblica Dominicana.

Come avete raggiunto questi mercati?Attraverso la partecipazione a fiere di settore?
Siamo riusciti a raggiungere questi mercati partendo con la valigia di cartone e andando, con tanta umiltà, a promuovere il nostro territorio nel mondo. Io per tanti anni ho fatto l’agenzia di soggiorno turistico dell’Abruzzo!

Qual è la sfida per il futuro per una cantina sociale come la vostra?
La sfida per il futuro è un upgrade rappresentato dalla sostenibilità che non è solo ambientale, ma è anche economica e sociale, e oggi più di prima il nuovo ruolo che le cantine cooperative possono avere è proprio questo: una realtà come la nostra che raggruppa 600 famiglie, 1200 ettari di terreno, 30 dipendenti, ha il dovere di percorrere questa strada, legata alla sostenibilità, non solo ambientale, ma soprattutto economica, perché riguarda un intero territorio, la collettività tutta, la comunità sociale, perché è importante occuparsi del tuo dipendente e di tutto l’indotto intorno a te, altrimenti non hai fatto nulla. Questo tipo di approccio, legato a questi valori della sostenibilità, sono oggi gli elementi fondanti di una cooperativa. Se 50 anni fa la cooperativa nasceva per supplire a un’esigenza, quella di fare in modo che i propri soci potessero vinificare le proprie uve attraverso uno stabilimento e poi cercare di vendere nel migliore dei modi sul mercato, e all’inizio degli anni 2000 la trasformazione si è focalizzata sulla qualità di ciò che si vendeva, oggi la vera sfida è occuparsi dell’economia del proprio territorio, delle persone che lo abitano, della collettività. Questa io la chiamo l’etica della sostenibilità ovvero fare la propria parte per la gestione del bene comune.
Noi siamo ospiti, anche se pensiamo di essere padroni di questo mondo, a volte ci dimentichiamo che siamo solo ospiti. Noi nasciamo e moriamo nello stesso modo e non portiamo nulla con noi, però ci viene affidato un posto, un piccolo pezzetto di territorio e in quel luogo dobbiamo cercare di fare la nostra parte, lo dobbiamo “coltivare”, facendo in modo di lasciare ai nostri figli quel territorio meglio di come ce l’hanno consegnato i nostri genitori, questo dovrebbe essere il nostro ruolo e quello di una cooperativa: adempiere al suo sublime lavoro che non è più solo impresa, ma è qualcosa di più che va a dare una connotazione ancora più forte a quel territorio, allora una cantina sociale si distingue.

Quindi in conclusione, le cantine sociali, le cooperative del vino, hanno ancora senso oggi?
Hanno ancora senso se si doteranno di governance e management, due parole oggi sconosciute ancora a molti nella cooperazione abruzzese, e se faranno l’upgrade del loro ruolo da impresa produttrice di vino di qualità a impresa produttrice di vino di qualità legata alla sostenibilità, altrimenti non ci sarà alcun futuro, scompariranno.

 

[Crediti | Foto di Cantina Frentana, Carmelita Cianci]

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