di: Carmelita Cianci

Delphìn, birra artigianale di territorio

Intervista al mastro birraio Giuseppe Villani.

Giuseppe Villani, quarantenne di Roccascalegna, avvia il suo birrificio artigianale dieci anni fa. Una realtà che negli stili brassicoli si ispira soprattutto al Belgio, ma che nella materia prima valorizza gli ingredienti e i prodotti del territorio.
Lo abbiamo incontrato nella sua tap room incastonata proprio sotto al Castello Medievale.

Delphìn, birra artigianale di territorio. Intervista al mastro birraio Giuseppe Villani.

Giuseppe Villani
Giuseppe Villani
Giuseppe Villani
La tap room

Come nasce la tua passione per la birra?
«Tutto inizia ai tempi dell’università, nei primi anni 2000, quando studiavo design a Roma. Ero solito frequentare alcuni locali vicino casa, e in quel periodo iniziava ad esserci un certo fermento sulle birre artigianali italiane. Ricordo ancora le mie prime birre di Birrificio del Borgo, le Dogfish Head di Sam Calagione, e poi Baladin, Theresianer, Birrificio Italiano. Subito dopo gli studi ho iniziato a lavorare per Bulgari, mi occupavo del restyling delle vetrine dei negozi, e viaggiavo molto, soprattutto in Inghilterra, Francia e Germania.
Durante i miei viaggi vedevo che la tendenza dei birrifici artigianali in giro per il mondo era in forte ascesa, e il mio interesse cresceva sempre di più, scoprivo stili e birrifici, assaggiavo birre nuove. Quando ero a Milano andavo in posti come La Belle Alliance, il Lambiczoon, proprio lì ho provato le prime birre acide. Così nel tempo libero ho iniziato a partecipare a corsi e degustazioni, in particolare ai corsi di Lorenzo Dabove, considerato uno dei guru della birra artigianale, un grande conoscitore del Pajottenland, regione del Belgio rinomata per la produzione delle birre a fermentazione spontanea, le Lambic. Poi nel 2008 è arrivata la crisi, con la successiva svendita dei marchi: Bulgari è stata acquisita dal gruppo LVMH. Conclusi gli ultimi lavori per i 125 anni dell’azienda siamo stati mandati a casa.
Chiusa questa parentesi della mia vita, ho iniziato a pensare al mio futuro, a quello che mi piaceva davvero, a cosa avrei voluto fare “da grande”. La risposta era sempre stata lì, la birra. Così nel 2012 sono rientrato in Abruzzo, ho trovato un locale a Selva d’Altino, ho investito tutti i miei risparmi e mi sono lanciato in questo nuovo progetto. Nel 2013 è nato il birrificio, e nel 2018 la Tap room qui a Roccascalegna, uno spazio dedicato alla degustazione delle birre».

Come hai imparato il mestiere?
«Ho studiato molto le tecniche brassicole, ho viaggiato soprattutto in Belgio e in Francia, ho avuto modo di conoscere le Saison belghe, le Tripel, le Bière de Garde francesi con i mastri birrai del posto, è stato fondamentale per imparare, per prendere spunto, idee, ispirazione. Ho sperimentato e ho cercato di perfezionarmi, tuttavia i primi tre anni sono stati difficili, complicati. Quindi a un certo punto ho rivisto quello che stavo facendo: alcune volte c’è bisogno di un foglio bianco e una matita per per ricominciare. Fino a quel momento avevo semplicemente fatto delle birre che piacevano al mercato, mancava qualcosa: la mia identità. Da lì ho cominciato a guardarmi intorno e ho scoperto il mio territorio, a me sconosciuto fino a quel momento. Mi piaceva il discorso di “terroir” che Jurij Ferri (Almond ’22) aveva preso dal mondo del vino e aveva portato in quello della birra, e ho sposato questo concetto. Volevo raccontare il mio territorio attraverso le mie birre, ma per farlo era necessario conoscerlo, così la mia ricerca mi ha fatto scoprire materie prime e prodotti incredibili, realtà locali che fanno un lavoro importante con il miele, i grani antichi, i vegetali, ingredienti essenziali per le mie birre».

Quando hai cominciato c’è stato un punto di riferimento, una fonte d’ispirazione?
«Teo Musso di Baladin, ho avuto anche il piacere di condividere con lui la mia prima visita nel suo birrificio. E’ accaduto nei primi anni di attività, quando le cose non mi andavano benissimo, così gli ho raccontato delle mie difficoltà, ed è stato lui a consigliarmi di prendere un foglio bianco e una matita e iniziare a scrivere quello che volevo fare. Mi disse: non trovare scuse, perché se io ho fatto questo in mezzo al vino, tu potresti fare anche di più.
Lui ha creato un impero della birra in Piemonte…quindi!
Mi ha spronato, mi ha ispirato e mi ha fatto capire quanto fosse importante trovare la mia identità, il mio percorso. Poi è fondamentale girare molto, viaggiare, studiare costantemente. Se ho apprezzato lo stile di una birra in Vallonia, in Normandia o in Scozia, posso cercare di replicarlo e reinterpretarlo - non copiarlo - con le materie prime del mio territorio».

Ma veniamo alla materia prima. Dove la prendi e cosa utilizzi?
«All’inizio, dieci anni fa, la materia prima era tutta d’importazione. Prendevo i malti, attraverso Mr. Malt, dal Belgio e dal’Inghilterra. Ai tempi a livello nazionale non c’era granché. Con gli anni è cresciuto l’interesse nei confronti del mondo brassicolo  e sono nate realtà come Italian Hops Company, la prima azienda italiana ad occuparsi di produzione e commercializzazione del luppolo; io da loro acquisto solo luppoli italiani ed europei.
Poi faccio parte del Consorzio Birra Artigianale Italiana, un’alleanza produttiva tra produttori agricoli, malterie e birrifici indipendenti: questo mi permette di attingere a materie prime rigorosamente italiane.
Quanto alle materie prime abruzzesi, tra gli ingredienti più importanti c’è l’acqua della Maiella, quella che sgorga dalla sorgente del Verde, microfiltrata ma non trattata.
I grani antichi arrivano dalla vicina Sant’Eusanio del Sangro e sono quelli di Orietta Menna (Terra Nobile), il miele è di Apicoltura Colanzi di Casoli. Per realizzare le “Fruit Saison”, una linea ispirata allo stile “Saison” della Vallonia, utilizzo solo ingredienti abruzzesi e di stagione. Inizio a gennaio con le arance della Costa dei Trabocchi che prendo in un’azienda agricola di Fossacesia:  aggiungo il succo d’arancia in fase di fermentazione e viene fuori questa birra agrumata, molto fresca e piacevole. In primavera, aprile/maggio, utilizzo le bacche di sambuco. Poi tocca alle ciliegie e alle amarene, a giugno ci sono le albicocche, poi escono le pesche, e con i frutti rossi concludo la frutta.
Nel periodo autunnale è tempo di castagne, così a fine ottobre le vado a raccogliere a Sante Marie, in Marsica, da Loreto Di Santo. Per fare la birra, abbrustolisco le castagne, le pulisco, in modo che la buccia non rilasci il tannino, e lavoro la parte interessante: lì c’è dell’amido che poi viene convertito in zucchero e ottengo così una birra alle castagne alla quale aggiungo anche del miele di Marruca. Sul fronte vegetali utilizzo il crespigno (in dialetto “cascigni”, utilizzati  nella cucina locale per pizz e foje), una pianta spontanea con la quale produco l’Hopcasc, una Pale Ale che mi ha dato tante soddisfazioni, presente nella guida delle birre di Slow Food dal 2017.
Con un altro vegetale, il Sedano nero di Torricella Peligna, è nata una bella collaborazione con l’azienda agricola Dimarino e una Pale Ale parecchio interessante. Tra gli  ingredienti del territorio, che ho sperimentato soprattutto in passato, ci sono anche il peperone dolce di Altino e il fico reale di Atessa. Quest’ultimo lo mettevo in infusione, per estrarre tutto lo zucchero dal frutto. Quindi reinterpretavo una Tripel belga delle Fiandre non con il classico zucchero candito, che ormai fanno tutti, ma con il fico reale di Atessa».

Qual è lo stile che segui o che comunque ti piace?
«Gli stili che seguo sono prevalentemente quello belga e francese, lo stesso nome del birrificio, “Delphìn” richiama il Delfinato, l’antica provincia francese, persino negli stili brassicoli con le ambrate, le saison, le Bière de garde, le birre del contadino.
Non mancano alcune interpretazioni delle Session IPA, Porter e Pale Ale. Poi certo è tutto in evoluzione, e probabilmente in futuro ridimensionerò il numero delle birre che produco ora».

Quante birre fai? Quali senti più tue?
«Attualmente ne sono 12. Sono sicuramente molto legato alla Presentosa, una birra che vuole essere un elogio all’Abruzzo. Si tratta di una “spontanea” realizzata in due versioni utilizzando i lieviti presenti sulle bucce dell’uva Montepulciano e Trebbiano abruzzese. L’uva biologica arriva dall’azienda agricola Coletti di Ofena. Il progetto è nato nel 2016 e l’ispirazione è arrivata con un viaggio nelle Fiandre: sono andato a visitare De Dolle, un birrificio che fa queste Tripel spontanee in botti che prima contenevano l’Armagnac; si tratta di birre molto alcoliche che non scendono mai sotto i 10 gradi, prodotte con un assemblaggio di tre annate diverse, un metodo à l’ancienne. L’idea mi piacque molto, così rientrato in Abruzzo mi sono messo all’opera ed è nata la Presentosa, un’assemblaggio di tre diverse annate: per la 2023 ci sono la 2020, 2021 e 2022. Poi c’è la rifermentazione in bottiglia, di sei mesi, e si arriva quindi nell’annata corrente, ecco perché 2023.
Il progetto grafico in etichetta è molto semplice, richiama i motivi della Presentosa, gioiello d’oro a filigrana sottile, con i due cuori legati, che in questo caso rappresentano la mia terra e la mia grande passione per il mondo brassicolo.
Un’altra birra che mi piace tanto è la Betty Ale, un’ambrata prodotta con la radice di genziana, una birra che fa pensare all’Abruzzo, ma che è d’ispirazione belga. Una volta, soprattutto nelle Fiandre, quando non si conosceva ancora il luppolo, per contrastare l’eccessiva dolcezza del mosto erano impiegate le radici, le foglie. Ho reinterpretato questo stile con la genziana, è una birra che personalmente mi piace molto.
Lo spunto dal Belgio arriva anche con la nuova Cesarin, ispirata alla Tripel Karmeliet, una birra storica fatta con l’aggiunta del grano non maltato e realizzata con miele di coriandolo, polline e farro. In questo caso il polline viene utilizzato per creare uno starter di lievito, mentre la scelta è caduta sul miele di coriandolo perché nel mondo brassicolo belga l’utilizzo delle spezie è molto diffuso, ma invece di ricorrere al chicco della spezia, ho aggiunto il miele».

Di solito in quanto tempo nascono le tue birre? Ci sono periodi dell’anno eletti alla produzione?
«Le birre che hanno una gradazione più alta necessitano di riposare più tempo sui lieviti, quindi solitamente sono pronte in 60/70 giorni, pensiamo alle Tripel o alla mia Presentosa che faccio maturare anche un anno. Per le birre di facile beva, invece, i tempi sono più rapidi, solitamente 10 giorni di fermentazione e 20 giorni di lagerizzazione a bassa temperatura per favorire il filtraggio naturale e poi procedo con l’imbottigliamento.
Per birre da 4/5 gradi alcolici bastano 15 giorni per ottenere una carbonazione e una maturazione giusta per la somministrazione. 
Quanto al periodo migliore, la tecnologia mi permette di lavorare tutto l’anno, ma se volessi seguire il “metodo antico” dovrei avere come finestra temporale di produzione quella che, per una questione di temperatura, va da ottobre a fine aprile. Con il cambiamento climatico ci sono birre spontanee come la Lambic che rischiano di scomparire. L’aumento delle temperature rende difficoltoso il raffreddamento naturale del mosto, è sempre più difficile scendere a 22/23 gradi».

A proposito di Lambic, ti piacciono le birre acide?
«Molto. Ho un progetto “coolship” in mente: si tratta di un raffreddamento che avviene in una vasca aperta, lasciata fuori all’esterno, con tutti i lieviti che vanno ad imbrattare, a contaminare il mosto che poi viene messo dentro le botti e a quel punto parte la magia. Finita la fermentazione vigorosa, viene tutto tappato, lasciato riposare un anno e l’operazione viene ripetuta per due/tre anni, così da ottenere un mosto di tre anni, due anni, un anno, quindi si fa l’assemblaggio e si ottiene la Geuze. Ovviamente non si potrà chiamare così, ma la sostanza è quella».

Come nascono le etichette delle tue birre?
«Me ne occupo io, ma sono anche il risultato di diverse collaborazioni, come quella della Cesarin, etichetta nata dalla mano di Fiorindo Ricci o altri progetti grafici con Walter Impicciatore. Un’altra iniziativa avviata con alcuni amici grafici, è quella dei fumetti dedicati ai “Robohop”, robottini di legno che mi aiutano nel birrificio. Tramite le loro avventure in giro per il mondo raccontiamo gli stili brassicoli. Sono libricini da 16 facciate che vengono proposti nei pub che somministrano la mia birra: c’è la prefazione con i personaggi della storia che recita “il tempo di una birra”. È un lavoro che sto facendo per ogni birra».

Che numeri fai? Con le tue birre sei presente anche oltre i confini regionali?
«In media, mensilmente, produco circa 12 ettolitri, meno nel periodo estivo. Lavoro soprattutto con i fusti in tap room. Il mercato di riferimento è nazionale, ma più che collocare la mia birra altrove e commercializzare un prodotto che oltre i confini regionali può avere alcuni limiti nella narrazione, credo molto nel turismo brassicolo: far conoscere il territorio attraverso le birre, far venire le persone qui. Negli ultimi anni è un fenomeno che sta crescendo, tanto che l’estate scorsa sono venuti a trovarmi diversi colleghi mastri birrai, addetti ai lavori e appassionati un po’ da tutta Italia».

Organizzi visite e degustazioni nel birrificio?
«Nel birrificio giù a Selva d’Altino no, essendo una piccola realtà, sono sempre in produzione, quindi per non rischiare contaminazioni dall’esterno, evito le visite.
Invece qui in tap room c’è la possibilità, su prenotazione, di fare la degustazione.
Ci sono diverse proposte, come le 5 birre abbinate a 5 formaggi del caseificio Del Mastro di San’Eufemia a Maiella. Con loro è nata una collaborazione e il “birraggio”, un formaggio vaccino realizzato aggiungendo il mosto zuccherino alla cagliata. Viene fatto con la base della Betty Ale e con i malti caramellati. Dopo 50/60 giorni di stagionatura, queste caciotte da un kg sprigionano un sapore intenso con interessanti sentori di malto. Per le degustazioni lavoro anche con le farine di Terra Nobile, utilizzate per la preparazione delle ferratelle salate, i salumi delle Tre Casette, e altri prodotti locali».

Progetti per il futuro?
«Vorrei spostare il birrificio qui a Roccascalegna, l’idea è di fare quest’operazione entro due anni. Avere due volumi ben distinti: il birrificio e la tap room con ristorazione. Voglio mettere in pratica la mia idea di assaggio e abbinamenti con una cucina legata alla stagionalità dei prodotti locali, soprattutto i vegetali. Attualmente realizzo 12 tipologie di birra, quindi dovrò ridimensionare il numero perché sono tante e possono diventare ingestibili se sposto il birrificio qui. L’ideale sarebbe gestirne 6, magari mi concentrerò di più su quelle che raccontano il territorio, sulle spontanee e le Tripel. Vorrei puntare sulle birre identitarie, quelle che più mi caratterizzano, che riconosci come le mie.
Sul fronte sperimentazione, mi piacerebbe fare una birra come la Midas Touch di Sam Calagione (Dogfish Head), una Ale con miele, uva di moscato e zafferano. Io potrei lavorare a una Golden Ale con zafferano, trebbiano o malvasia e un miele di acacia. Ho un’idea anche per una birra importante con il tartufo, un altro prodotto di questo territorio e che, attraverso la conversione dell’amido in zucchero, permette di fare un mosto aromatizzato».



Microbirrificio Delphìn
Tap Room
Borgo artigiano  - Roccascalegna
Da ottobre a giugno aperto il sabato e la domenica.
(10:00-13.30/15.00-21:00)
Nel periodo estivo aperto tutti i giorni.
www.microbirrificiodelphin.com

 

 

[Crediti | Foto di Carmelita Cianci]